Giacomo Amadori per “La Verità”
Non è mai stato iscritto sul registro degli indagati
nell'inchiesta sul crollo del ponte Morandi che, il 14 agosto 2018, ha
inghiottito 43 vite. Eppure in questa vicenda è un testimone di primissimo
piano. Come dimostra il verbale che pubblichiamo in esclusiva in queste pagine.
Gianni Mion, 79 anni, originario di Vo' (Padova), è stato amministratore
delegato della holding della famiglia Benetton, la Edizione, dal 1986 al 2016,
consigliere di amministrazione sia di Autostrade per l'Italia sia della sua vecchia
controllante, Atlantia.
Il peso specifico di Mion lo lasciamo precisare al pm genovese
Massimo Terrile: «È l'inventore dell'impero Benetton, è quello che [...] ha
indotto la famiglia Benetton, a buttarsi nel business delle autostrade e ha
costruito, come dire, l'architettura del sistema Benetton, in cui i vari
fratelli uno si occupava di autostrade e l'altro si occupava dei golfini
colorati e di quant' altro [...] Mion e come dire il Richelieu mettiamolo cosi,
è il Richelieu del Re Sole famiglia Benetton».
Il 13 luglio 2021, dopo la chiusura delle indagini preliminari,
il «consigliere» è stato sentito in gran segreto da Terrile, il quale, poi, ha
utilizzato quel verbale come indizio decisivo durante l'udienza preliminare.
Infatti il documento descrive un evento considerato chiave per tutta questa
storia. Mion introduce così l'argomento: «Periodicamente si organizzavano degli
incontri, che noi chiamavamo di induction, nel corso dei quali venivano
presentati e illustrati temi vari, alla presenza di tutti i consiglieri di
amministrazione di Atlantia, dei membri dei collegi sindacali, degli
amministratori delegati delle società del gruppo, dei direttori generali, del
management tecnico di vertice». Riunioni «informali che non venivano []
verbalizzate, ma che duravano molto ed erano molto approfondite».
Per il manager, in una di queste, «dedicata al tema dei viadotti
e delle gallerie», si sarebbe parlato «lungamente delle problematiche che
affliggevano il viadotto Polcevera». L'incontro su cui si è concentrata
l'attenzione dei pm è quello del 16 settembre 2010. Quell'appuntamento è
entrato nel processo quasi come una pistola fumante, usata contro diversi
imputati, ma non contro i Benetton o Mion, che ne ha parlato in Procura.
Alla fine questi signori sono rimasti fuori dall'inchiesta e
nessuno è andato ad acquisire documentazione negli uffici del Richelieu di
Treviso e neppure nella sede della holding Edizione e della subholding
Sintonia. Forse i magistrati hanno preferito non disperdere le forze e si sono
concentrati sulle responsabilità dirette degli imputati per il disastro. Ma
Terrile, nella requisitoria pronunciata durante l'udienza preliminare che ha
portato al rinvio a giudizio degli indagati, ha più volte citato il verbale di
Mion. Una bomba di cui gli avvocati hanno ben compreso l'importanza.
Per questo vale la pena di analizzare al microscopio quelle
dichiarazioni. In particolare laddove Mion fa riferimento alla riunione: «Per
me quell'incontro è stato memorabile. Parlavano i tecnici e illustravano varie
tematiche legate alla gestione delle gallerie e dei viadotti della rete. Ad un
certo punto, si arrivò a parlare del viadotto Polcevera, che tutti noi sapevamo
essere l'opera d'arte più importante, più prestigiosa e anche più complessa
dell'intera rete nazionale. I tecnici spiegarono che il viadotto Polcevera
aveva un difetto originario di progettazione», ha detto Mion. Terrile in aula
gli ha fatto l'eco: «I tecnici spiegarono che il viadotto Polcevera aveva un
difetto originario di progettazione... non so se e chiaro il concetto perché io
l'ho letto tre o quattro volte per essere sicuro.
Siamo nel 2010 e i vertici di Aspi, riuniti in questa induction,
discettano tra loro di un difetto di costruzione che affligge il viadotto
Polcevera». Insomma, per l'accusa, a far crollare il ponte potrebbe essere
stato «un difetto di cui si parlava già nel 2010».
Il magistrato vuole sapere di quale problema si trattasse. Mion non sa
rispondere («Io non sono in grado di descriverlo, essendo passato tanto tempo e
non avendo alcuna competenza tecnica»), ma ricorda un'informazione sconvolgente
che acquisì in quella riunione: «I tecnici spiegarono che quel difetto di
progettazione creava delle perplessità sul fatto che quel ponte potesse stare
su».
Terrile ripropone con enfasi davanti al Gup tale virgolettato:
«Quel difetto di progettazione creava delle perplessità tra i tecnici di
Autostrade, riuniti alla presenza di Castellucci nella riunione di induction
del 16 settembre 2010 sul fatto che il ponte potesse restare su». Il pubblico
ministero si indigna: «A me fa impressione 'sta roba qui». Poi ricorda che a
quella riunione parteciparono, oltre a Mion, Castellucci e l'allora direttore
generale Riccardo Mollo «che in quel momento sono i due massimi rappresentanti
dell'azienda». Per la pubblica accusa le parole di Mion sono terribili, ancor
più perché pronunciate da uno che non solo «è la voce dei Benetton dentro
Autostrade, attraverso la società Edizione», ma e anche «uno che non deve
scansare alcun rischio di responsabilità perché lui proprio con questa roba qui
non c'entra».
Quella di Terrile sembra una certezza granitica. E così il
racconto del manager può fluire in tutta la sua enormità, ma come se fosse il
resoconto di un osservatore sceso da Marte: «Ricordo perfettamente che io, ad
un certo punto, intervenni, da completo incompetente qual ero, e chiesi se
avevamo qualche ente esterno che aveva attestato la sicurezza strutturale di
questo ponte cosi importante e così complicato.
Siccome gestivamo la rete in regime di concessione, io pensavo
ad una attestazione di sicurezza da parte della concedente o di un ente di
fiducia della concedente. A quel punto, Mollo mi rispose - lo ricordo come
fosse adesso - che la sicurezza del ponte ce la autocertificavamo».
Terrile parafrasa per gli astanti: «Noi la sicurezza del ponte
ce la autocertifichiamo, non rompete le scatole, non disturbate il manovratore,
non parlate al conducente». Il pm rimarca più volte l'espressione «ce la
autocertifichiamo» perché Spea era «roba loro».
La voce di Mion entra in udienza come quella di Girolamo
Savonarola, ricordando ai presenti i loro peccati: «La cosa mi lasciò allibito
e sconvolto, anzi, più esattamente, terrorizzato. Mi sembrava assurdo che,
essendo tutti consapevoli dell'esistenza di un difetto di progettazione in
un'opera così importante, non chiedessimo una verifica esterna e terza della
sua sicurezza, da condividere con il concedente.
Tanto più che si trattava di un'opera con circa 50 anni di vita,
i cui materiali erano necessariamente usurati e che aveva certamente dovuto
sopportare, nel corso di quegli anni, un enorme incremento del traffico
veicolare, anche pesante».
Lo j' accuse prosegue implacabile: «Ma questa cosa sembrava
assurda soltanto a me, perché constatavo che, invece, a tutti gli altri
partecipanti a quell'incontro (tra i quali c'era ovviamente anche Castellucci)
sembrava tutto normale, che nessuno si preoccupava e che nessuno aveva dubbi di
nessun genere.
Mollo garantiva che le verifiche eseguite all'interno del nostro
gruppo, tramite Spea, escludevano qualsiasi problema di sicurezza del viadotto
e tutti, a parte io, erano soddisfatti di questa garanzia».
Mion è di diverso avviso: «Io, invece, mi sentivo tutt' altro
che tranquillo, non mi fidavo, non condividevo il metodo perché, in una
situazione del genere, mi pareva assolutamente indispensabile coinvolgere il
ministero, e cominciai così, proprio da quel momento, a pensare di allontanarmi
dalle mie posizioni di responsabilità e di lasciare quindi l'incarico di
consigliere di amministrazione di Atlantia, cosa che feci poi attorno al 2013».
Dunque la voce, gli occhi, le orecchie dei Benetton, come le tre
scimmiette, batte in ritirata anziché provvedere a far invertire la rotta.
Terrile rimarca che Mion «è uno che per decenni ha deciso vita,
morte e miracoli di tutto quello che succedeva in tutto il gruppo Benetton», ma
non gli contesta alcuna responsabilità. Per la toga è una specie di Grillo
parlante e non un complice. Un uomo per bene che si scandalizza di fronte a
quello scempio. Peccato che potesse, forse, provare a porvi rimedio.
Infatti il manager non è un passante, ma il più influente
rappresentante della proprietà. È il braccio operativo degli imprenditori
trevigiani, ma quando ascolta le enormità che gli tocca sentire sul Morandi,
per l'accusa, conta come il 2 a briscola. Non può denunciare la cosa
all'autorità giudiziaria, non può avvertire il ministero, non può chiedere ai
Benetton di correre ai ripari. No, lui nella riunione di induction fa
praticamente la bella statuina. Anzi, inorridisce.
«Io non c'entro» Anche se davanti ai magistrati prova a evitare
coinvolgimenti giudiziari con questa precisazione: «Non ho mai avuto ruoli
all'interno di Autostrade per l'Italia (anche se ha fatto parte del Cda, ndr).
Ci tengo a sottolineare che Edizione è sempre stato, e ha sempre voluto essere,
un investitore finanziario e non un socio gestore, perché questa era la volontà
della famiglia Benetton, cui Edizione faceva capo, e queste erano, del resto,
le mie competenze professionali, che sono sempre state competenze in materia di
investimenti finanziari, e mai di gestione».
La Procura deve aver accolto l'obiezione. Nel faccia a faccia
tra Mion e Terrile si è discusso anche del ruolo dei «fratelli Benetton». «Chi
si occupava del settore delle autostrade, chi era il suo riferimento e il suo
interlocutore abituale in quel campo?» domanda il pm. E Mion replica che «era
Gilberto». Il quale, puntualizza, però, subito il manager, «è deceduto nel
2018». In sostanza se mai in Procura a qualcuno fosse venuto in mente di dare
la caccia alla «sacra famiglia» sarebbe stato necessario far rotta sul
camposanto. Richelieu è chiaro: «Gilberto era l'unico che si interessava di
autostrade ed è sempre stato il mio unico interlocutore al riguardo.
Gli altri fratelli non soltanto non si sono mai occupati di
questo settore, ma anzi, sotto molti aspetti, lo soffrivano, perché ritenevano
che le vicende che lo interessavano producessero effetti negativi sull'immagine
e sulla comunicazione Benetton così come si era consolidata nel tempo e
affermata in tutto il mondo».
Mion confida che, inizialmente, dopo la privatizzazione, le sue
interlocuzioni con gli amministratori delegati, Vito Gamberale e Castellucci
(«entrambi scelti e assunti da me») «erano pressoché quotidiane» e lui
rappresentava «il tramite costante e pressoché esclusivo tra la famiglia
Benetton e i massimi responsabili della gestione». Poi quando Mion aveva
iniziato a proporre l'ingresso di soci industriali, che gli amministratori
temevano avrebbero causato «una limitazione dei loro poteri gestionali»,
«entrambi avevano avvertito e maturato sempre più la necessità o l'opportunità
o la convenienza di entrare in rapporto diretto con la proprietà».
Quindi, dice Mion, l'imputato principale, l'ingegner
Castellucci, aveva interlocuzioni non mediate con i Benetton. Ma forse tra loro
parlavano di maglioncini. Terrile domanda al testimone se sapesse che negli
anni 90 fossero stati fatti dei lavori sugli stralli (per il deterioramento dei
cavi) di una delle pile del Morandi, e che ce ne fossero due identiche su cui
quegli interventi non erano stati realizzati.
È a questo punto che il manager estrae dal cilindro la storia
delle riunioni di induction. Il magistrato squaderna davanti al testimone
diverse intercettazioni che lo riguardano e gli ricorda che in un paio di esse
aveva affermato che Autostrade era piena di «personaggi finti», che «era
Castellucci a gestire tutto» e che «loro avevano messo [] tutti pupazzi [] che
potevano manovrare». Dove «loro» ovviamente non sono i Benetton. Il manager,
dopo avere confermato quelle parole, le chiosa in questo modo: «Devo dire che
io avverto una mia personale responsabilità morale per la tragedia, perché sono
stato io a scegliere Castellucci e perché non ho fatto abbastanza per limitarne
il potere».
Un'egemonia che era praticamente illimitata: «Castellucci, nel suo ruolo di
amministratore delegato sia di Atlantia sia di Aspi, godeva, di fatto, di un
potere assoluto, anche perché era privo, come ho spiegato, di forti
interlocutori imprenditoriali che potessero limitarne l'onnipotenza». La
valutazione di Mion è che l'ad «si circondasse di figure di modesta caratura,
tali da non potergli dare ombra». Il disastro del Morandi sarebbe la
conseguenza di questo accentramento decisionale privo di controlli esterni, a
partire da quelli governativi.
Il ruolo di Spea «Questo è stato l'errore fondamentale commesso, a mio parere,
nella fase della privatizzazione. Spea non avrebbe mai dovuto essere
privatizzata e, tanto meno, inglobata nel gruppo Autostrade», è la conclusione
di Mion.
«Spea, per esercitare con efficacia, autonomia e professionalità
i suoi fondamentali compiti di sorveglianza e monitoraggio tecnico delle opere
della rete, avrebbe dovuto rimanere una società pubblica, facente capo al
ministero o all'Anas. In alternativa, sarebbe stato indispensabile che, prima
Anas e poi iI Mit, si dotassero e disponessero delle ingenti risorse economiche
indispensabili per operare un reale ed efficace controllo sulla sicurezza di
ponti e gallerie della rete, il che certamente allora non era e neppure oggi è.
Questo è stato un gravissimo errore di principio». Per cui, sembra, non pagherà
nessuno. A quello sbaglio imperdonabile «ha fatto seguito - dopo la
pubblicazione delle intercettazioni telefoniche di questo processo - la
consapevolezza», come si evince dalle intercettazioni dello stesso Mion, «che
Spea fosse piena di incapaci e di lazzaroni e che, come prima ed essenziale
mossa, Aspi avrebbe dovuto prenderne le distanze, scaricandola e abbandonandola
al suo destino».
Ma questo non sarebbe
accaduto neppure dopo la morte di 43 innocenti. A testimoniarlo è Mion:
«L'atteggiamento assunto dalla famiglia e dalla società, per bocca di
Castellucci, subito dopo il crollo è stato, a mio avviso, completamente
sbagliato e rovinoso. Ricordo che telefonai a Castellucci, tre giorni dopo il
crollo, chiedendogli esplicitamente di chiedere scusa, di stanziare una grossa
cifra per i primi risarcimenti e di dare le dimissioni. Castellucci non fece
niente del genere e, su questo, trovò l'appoggio iniziale della proprietà, che
secondo me - come dico in altre conversazioni di cui mi viene esibita la
trascrizione parziale - non si era ancora resa conto dell'entità della tragedia
e degli effetti devastanti che essa produceva sulla immagine loro e delle loro
imprese. La reputazione Benetton - come mi confermò la sondaggista Ghisleri
(Alessandra, ndr) - era morta e sepolta».
E in un'intercettazione Mion aveva specificato che ad
«ammazzarla» erano state «le due feste di Cortina», organizzate con le macerie
ancora fumanti. Dunque una delle più note schiatte imprenditoriali italiane per
mesi non si sarebbe resa conto della gravità dell'accaduto. E per svegliarla
dal torpore ci sarebbe stato bisogno degli articoli dei giornali che svelavano
i primi atti di indagine. O per lo meno, questo sostiene Mion: «Da questo punto
di vista, devo dire che la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche
costituì una fortuna e un vero toccasana per far acquisire, anche alla
famiglia, la necessaria consapevolezza della gravità della situazione. Ciò
comportò, seppure con colpevole ritardo a mio avviso, l'estromissione di
Castellucci, oltre che di Spea».
Con questo clima, nel giugno 2019, il manager è rientrato in
Edizione con il ruolo di presidente «per cercare di creare le condizioni per
salvare la concessione e ricostruire la credibilità perduta». Dal verbale si
evince anche il tentativo un po' velleitario di Terrile di far confessare
qualche colpa a Mion o di fargli incolpare i suoi generosi datori di lavoro:
«Lei ha mai dato, o le risulta che qualcuno abbia dato, agli amministratori di
Aspi, per conto della proprietà, indicazioni o direttive su materie quali le
spese di manutenzione, in particolare indicazioni o direttive finalizzate a
contenerle nella massima possibile misura?», domanda il magistrato. La risposta
è facilmente prevedibile: «Assolutamente no. Non solo io non mi sono mai
sognato di dare indicazioni di quel genere, ma a nessuno della famiglia
Benetton sarebbe mai venuto in mente di prendere simili iniziative».
L'inquirente chiede a Mion se non si fosse accorto che nei
bilanci i costi per le manutenzioni «andavano sistematicamente a diminuire» con
un decremento in otto anni di quasi il 60 per cento. Quindi domanda
all'interlocutore se fosse al corrente che l'ultimo costoso intervento
manutentivo sul ponte risalisse al 1992 quando Aspi era pubblica e che da
allora fossero stati spesi meno di 400.000 euro. Mion prova a svicolare: «Non
sempre la diminuzione dei numeri corrisponde a una diminuzione di efficienza».
Ma un'intercettazione lo riporta alla realtà: la registrazione
dove dice: «Il vero grande problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in
calare, più passava il tempo meno facevamo. Così distribuiamo più utili.
Gilberto e tutta la famiglia erano contenti []». Il manager mette in campo un
bel catenaccio: «Certamente a nessuno della famiglia e a nessuno dei soci
poteva dispiacere che venissero distribuiti dividendi così elevati.
Certamente il legame che si era creato tra Gilberto e
Castellucci dipendeva anche dal fatto che la gestione di Castellucci garantiva
quegli utili e quei dividendi. Ma posso escludere con assoluta certezza che
qualcuno della proprietà abbia mai preso iniziative o dato direttive allo scopo
di ridurre quanto più possibile le spese per la manutenzione delle opere della
rete e di aumentare, conseguentemente, gli utili e i dividendi da distribuire».
Anche se per Mion, a partire dal 2010, era chiaro, e sono parole sue, che la
situazione fosse sconvolgente.